La Psicomotricità Relazionale nasce in Francia nella metà del secolo scorso. Si diffonde negli anni successivi in gran parte dei paesi dell’Europa e in alcuni dell’America del Sud.
Tale disciplina considera la persona nella sua globalità psico-fisica ed il suo obiettivo è quello di aiutarla a raggiungere un’integrazione tra le sue numerose componenti, prevenendo l’instaurarsi di gravi disarmonie, favorendo la ricerca di meccanismi funzionali e agevolando l’apertura alla comunicazione ed al pensiero simbolico.
La psicomotricità nel tempo si è distinta in numerosi indirizzi che si possono riassumere in due principali: la scuola funzionale dove il movimento viene controllato e migliorato al fine di raggiungere la completa maturazione psico-fisica dell’individuo e la scuola relazionale che si fonda sul gioco libero quale mezzo d’espressione di emozioni e desideri personali e dove la relazione assume un ruolo fondamentale per favorire l’educazione e/o la riabilitazione della persona .
In questo articolo approfondiremo il secondo orientamento: la psicomotricità relazionale.
Secondo tale posizione il soggetto attraverso il corpo e le sue funzioni tonico-emozionali attiva tutti i processi cognitivi, affettivi e relazionali sviluppando così un percorso di crescita e di sviluppo del sé.
Avvalendosi dell’esperienza del dialogo corporeo e del gioco libero, la psicomotricità relazionale indirizza il bambino a conoscere se stesso e l’ambiente circostante e ad acquisire modalità relazionali che fondino il suo senso di fiducia nelle risorse del proprio io e nelle risposte dell’altro.
Lo psicomotricista partecipa utilizzando principalmente il linguaggio corporeo non verbale (che è la prima forma di comunicazione), accoglie le richieste del bambino, valorizza le sue iniziative, lo facilita nell’interiorizzazione delle regole sociali, nella conoscenza e nella padronanza dell‘aggressività, nel superamento di forti Inibizioni e nel rafforzamento del senso di sicurezza e dell‘Autostima.
La psicomotricità relazionale può essere quindi un valido strumento nella prevenzione e nella cura dei disagi nell’area del comportamento e anche nelle disarmonie o nei ritardi dello sviluppo, della comunicazione, dell’espressione delle emozioni, delle difficoltà psicomotorie e delle sindromi neuropsichiatriche infantili.
Ma come avviene questo processo? “Semplicemente” attraverso il gioco. Se si guarda una seduta di psicomotricità sembra infatti che i bambini stiano “semplicemente” giocando, in realtà il gioco è l’attività o il “lavoro” più importante per la costruzione dell’identità e per la crescita emotiva e cognitiva di una persona. Il bambino giocando esprime se stesso, ci racconta la sua storia e ci rivela i suoi bisogni, le sue difficoltà, i suoi desideri, la sua volontà,la sua relazione con lo spazio, gli oggetti e le persone.
Il primo gioco che svolge un bambino è senso motorio. Esso è il primo impulso a vivere, ad esistere, ad affermarsi come persona. Il bambino che corre spontaneamente, infatti investe lo spazio, gioca e ride sembra dire: “guardatemi ci sono anch’io!”.
Il bambino scopre il piacere del movimento, acquisisce consapevolezza e fiducia in sé attraverso il muoversi, il fermarsi, il salire, lo scendere, il tuffarsi, il rotolarsi, il dondolare, lo spingere, il tirare. Questo è il modo attraverso il quale il bambino impara ad affrontare la realtà, per impossessarsene. Svolgendo tali giochi il bambino impara a stare con gli altri e a stabilire rapporti significativi.
Verso i due anni affiora il gioco simbolico che permette al bambino di riprodurre eventi e situazioni, ma anche di trasformare e dominare la realtà. Attraverso il gioco del “far finta di…”, il bambino rappresenterà situazioni di vita , o assumerà ruoli come fare la mamma o il papà. Grazie a tale attività matura nel bambino la capacità di rappresentare le cose che in quel momento non esistono, proiettando nel gioco desideri, emozioni e bisogni Questa capacità è molto importante perché gli permette di entrare ed uscire dalla realtà pur mantenendo la propria identità. Un esempio è l’oggetto transazionale, utilizzato per facilitare il processo di separazione del bambino dalla mamma predisponendolo all’individuazione e al riconoscimento di sé. Tale capacità sta anche alla base dello sviluppo del linguaggio verbale.
Il gioco simbolico possiede dei fattori che lo contraddistinguono e sono: la consapevolezza di finzione rispetto al reale, la volontà di realizzare il proprio progetto e l’uso di simboli che rappresentino un significato, ad esempio un bastone utilizzato come fucile, una sedia per la macchina, ecc…
Le funzioni di questo gioco sono molteplici, tra cui quella compensatrice, che permette di realizzare azioni o situazioni che nella realtà non sono possibili, ad esempio il gioco della parrucchiera o quello del falegname; quella liquidatrice, che permette al bambino di rivivere situazioni spiacevoli realmente sperimentate, come la visita dal dottore e la funzione anticipatrice, che permette di anticipare le situazioni e le loro conseguenze e ciò permette di viverle attenuando l’intensità dell’emozione, come ad esempio il gioco della scuola con la maestra e gli alunni.